Scuola sperimentale dell’attore a Pechino

Sempre il solito caro amico mi chiama dicendo che sta arrivando in città una compagni teatrale italiana, ci sono i biglietti da andare a prendere all’ambasciata, vieni il 27, mi dice, ci sarà un dibattito tra gli attori italiani e cinesi  dell’Accademia di Treatro Tradizionele Cinese (NACTA).  Faccio del mio meglio per prendere il biglietto, anche se lo strano mondo dell’ambasciata a volte mette i bastoni tra le ruote, alla fine risolvo e ho il biglietto per il 27.

Arrivo nella periferia sud di Pechino, riconosco la scuola, ho già accompagnato lì una mia amica cipriota che faceva una ricerca sulle maschere nell’opera di Pechino. La scuola: facciata nuova mattoni rossi appena ricostruita appare un po’ fredda, fortuna è notte e il ricordo dei vari edifici si perde. Sono molto curiosa di quello che andrò a vedere, un po’ perchè mi manca il teatro. Da non esperta, mi manca sedermi sulle poltrone di velluto comode o scomode che siano e senza pretese intellettuali, farmi portare all’interno della commedia. E’ da un bel po’ di tempo che non mi capita di ridere a teatro e l’ultima volta che accadde a Roma, non ero solo io a sentire la mia voce, ma tutta la paltea rideva a crepapelle, anche le inibizioni degli spettatori erano andate via, tutto ad un tratto. 

Quindi, ecco lo spettacolo inizia, scenografia semplice sullo sfondo, un piccolo teatro sul palco, quelli che vedevo da piccola al Gianicolo la domenica, gli attori erano veri, non burattini questa volta, erano persone che rappresentavano il mondo di Pantalone, l’amico nemico di Arlecchino. La scuola sperimentale dell’attore. La compagnia, il vero teatro del burattinaio sul palco, colori finalmente vivi, caldi e tanti. Abbinati da mani sapienti che hanno vissuto in Sud America, luogo che ne sa molto di colori e vivacità intellettuale. Gli attori, giovanissimi recitano in un dialetto o del nord italia, non capisco nulla o quasi. Guardo i cinesi che come me non capiscono le battute in ritardo sullo schermo accanto al palco. Ma l’ultimo dei problemi è capire, comprenderne la trama. Mi prendono i movimenti degli attori, che parlano e si muovono con gesti accentuati e un po’ come il burattino, ripetuti. La comunicazione passa attraverso le mani, i piedi, i saltelli e l’abbassarsi del corpo, non c’è bisogno di parole, tutto quello che conta è la caricatura dei personaggi. Furbetti del quartierino dell’Italia di un po’ di tempo fa, con riferimenti anche ai furbetti di adesso. 

Consiglio a tutti di andare.

Per me è stato un po’ come vedere il burattinaio di una volta. 

 

 

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